“Subito Prima”, testo critico di Chiara Casarin, 2011, ita

Attratta da una forza che è data per lo più dal mio peso, dalla mia mole, mi sento frenata, arrestata un attimo prima dell’impatto a terra. Sono fragile anche se non sembra. Nera, cupa, pesante. La mia superficie è chiusa, perfetta, tutta concentrata nel contenimento della mia forma, della mia imperturbabilità, del mio essere oggetto di una qualche forza e contundenza.

Si, sono fragile perché la materia di cui è composto il mio corpo è per natura frangibile. La mia sagoma appuntita verso il basso non potrebbe che esaltare la catastrofica caduta con miriadi di microstelle nere sparate tutt’intorno. Lo vedo il fermo-immagine dell’agognato momento. Sospese a mezz’aria le briciole di me si compongono in una conturbante nuvola di piccole lame. Sono fatta di vetro e il vetro, freddo, tagliente e impenetrabile è, incredibilmente, anche sensibile, debole.

Un anello mi avvinghia, un’elegante protesi mi cinge chiamata a evitare il mio disfacimento, preclude al dramma dell’impatto ogni possibilità di realizzazione. Mi trattiene e mi salva da un’elegante suicidio. Una salvezza solo momentanea dato che sarebbe mio scopo, mio intimo desiderio, verificare queste deflagranti potenzialità di schianto.
Se mi potessi anche solo per una volta lasciar cadere liberamente, io ‘Blade’, potrei finalmente assolvere al mio intrinseco compito, al mio ultimo, perché irrevocabile, scopo. Spezzata in scintille di luce, affilate e impietose potrei acquisire pienamente le mie potenzialità. Ma sarei perduta, sbriciolando in tal modo ogni mio, pur remoto, desiderio di immortalità.

Il vetro non è solo ‘uno dei materiali’ a disposizione degli artisti che ci creano. Un materiale  plasmabile, duttile, dalle infinite possibilità cromatiche e plastiche. Il vetro ha una caratteristica in più che gli altri materiali non hanno. E’ per vocazione contenitore. Se non contiene materiali diversi da sé, contiene sé stesso mentre trattiene lo sguardo di chi lo osserva. È una tridimensionalità nera quella che mi identifica qui oggi. Non un nero dispotico, ostinato ma un nero che è scrittura, forma, totalità del mio essere, un azzeramento della “pancromia” che mi circonda, un nuovo ritorno in me mentre, ingorda, trattengo lo sguardo di chi mi si pone davanti e non gli consento di trapassarmi.