“Terre in Vista”, testo critico di Giorgio Baldo, 2014, ita

L'installazione è uno spazio tra terra e cielo. In questo luogo sospeso i due elementi si riflettono e lì incrociano il loro discorrere. Andrea Morucchio , in questo secondo Dialogo Celeste, ha dato alla terra il ruolo di primo attore; che si presenta al cielo con una sua creazione; offrendosi a esso nella sua totalità. Il cielo, dalle sue altezze, è chiamato a vederla nella sua estensione di terra-corpo, che realmente circonda il Museo del Paesaggio ; e, nella figura che da essa si innalza e si fissa nell'installazione sospesa, ne vede un pensiero. Una immagine; che è una astrazione concreta in figura di questa terra. Morucchio ha fotografato in primavera e in estate una molteplicità di paesaggi intorno al Museo di Boccafossa: campi ara e nudi, campi colmi d'erba, campi con filari di germogli e piantine appena nate; prospettive di piatte superfici spinte sino all'orizzonte lontano, tagliate da drittssime linee di fossati, da filari d'alberi e filari artificiali di pali della luce; poi i nastri argentei di canali e dei due fiumi Brian e Livenza. In queste grandi superfici di terra e acqua, animate da un formidabile reticolo di linee e curve, parcellizzate in parallelogrammi di diverso colore e consistenza, nella loro piatta vastità ha trovato il punto di una casa colonica.

Ne è uscito un atlante di percezioni visive. La terra di Boccafossa è un paesaggio di enti geometrici. Questi presidiano le sue materie e ne governano gli estri e le forme; ma anche, dall'altro verso, la terra dell'uomo sembra ordinarsi da sé quasi in un delirio di geometrie, di astratte perfezioni: che qualcuno può estrarre e astrarre dalle sue superfici. Estrarre le idee spaziali e colorate di questo paesaggio e la loro movimentata combinazione, fare di queste essenze immagine, è la sostanza della ricerca di Morucchio. Per arrivare all'installazione sospesa che oggi vediamo ha seguito un processo complesso: si è chinato sulla terra, attento al suo genius loci, disteso sul suo volto superficie, confuso in esso. Ha riunito le centinaia di foto in poche classi, in luoghi-tipo.

Così vi è il luogo dominato dai segni delle rette e quello delle curve; quello dominato dalle superfici dei parallelogrammi e dalla scansione tra chiaro e scuro; quello delle emersioni rade o degli assembramenti fitti dei vegetali; poi i luoghi del solido e quelli del liquido e così via. Ha cioè riconosciuto, nella follia analitica dell'occhio fotografico che vorrebbe conoscere-classificare tutti i particolari del corpo della terra (e che nei particolari si perde) i contorni di poche figure. A questi grandi confini che delimitano, si è riferito come certezze del “vero” vedere; tentando di dare sostanza al genio geometrico che all'interno di essi fluttuava, governando segni, spazio, colori e movimento. Per fissare la mutevole configurazione di questi “luoghi-creature” (sempre scosse dalla luce del cielo che esalta e nasconde) ha tagliato e ricombinato in un insieme molte delle loro analitiche apparenze (usando le iniziali foto come semilavorati) creando un puzzle dove i tasselli si sono disposti seguendo geometriche linee di forza. Così ha formato otto sintetici ritratti di terra. La composizione di foto ritagliate, ricombinate in simmetrie specchianti lungo gli assi ortogonali, divenute infine nuova immagine, sembrano alludere alla scomposizione del reale del cubismo analitico, combinata con i giochi cinetici e optical degli anni '60.

Ma sono immagini nuove; super-immagini, in quanto composte di immagini particellari in sé compiute (e riconoscibili), ognuna vera (come può esserlo una foto) e ognuna falsa (come sono le foto; che rendono morto il vivo): un assemblaggio-collage in movimento: immagini ipercinetiche di una terra di enti geometrici. Così abbiamo otto figure, sintesi di un lavoro di estrazione-astrazione e riassemblaggio, ognuna tesa a dare figura al genio geometrico di un luogo, dove si concentrano, in un unico ritratto astratto di terra, quelle molteplicità di impressioni percettive che la macchina fotografica aveva fissato analiticamente in tante fotografie. Un ipergioco? Ci assomiglia; assomiglia a certe immagini frattali, a certe immagini create da calcolatori mediante algoritmi che trasformano in grafica onde di energia. C'è sicuramente in ognuno di questi ritratti la parte ludica (e perché non dovrebbe esserci gioco nell'arte?). Ma c'è di più. C'è un ordine, un concetto di ordine spinto sino ai suoi estremi, il desiderio di unificare particelle, atomi, universi e i loro moti nella grande griglia della simmetria, una delle leggi fondamentali dell'universo: dispiegarlo di specchio in specchio.

Morucchio ha fatto una sequenza delle sue otto figure, ha composto un tappeto volante. Dove un'ipergeometria combinandosi con il colore, con un tono, assume emozioni e stato d'animo. La consistenza del tappeto volante è labile; i fili del suo ordito sono fatti dai materiali e dai colori della terra, i suoi disegni sono i disegni che la terra traccia come un trucco ogni mattina sul suo volto. Il tappeto vola sulla terra, ne filtra la purezza, il decoro e i sensi trasfigurandoli in mosaici; così li offre alla contemplazione della cupola del cielo, come un intarsio del pavimento della sua basilica. Il reale della terra: una sua idea.