“The Rape of Venice, ovvero della Costruzione di un Contesto”, testo critico di Vittorio Urbani, 2015, ita

Nel celebre e sontuoso dipinto ospitato a Palazzo Ducale Nettuno offre a Venezia le ricchezze del mare (Giambattista Tiepolo, circa 1745) una Venezia già in pieno declino politico ed economico – ma che non sapeva di esserlo o faceva finta di non saperlo – offre la trionfante immagine dei veri valori di una civiltà mercantile: ciò che il dio del mare offre alla Serenissima sua Dominante sono oro,  perle e coralli … beni sommamente terreni, insomma.

Per contrasto la installazione multimediale The Rape of Venice di Andrea Morucchio, concepita duecentosettant’anni più tardi per Ca’ Mocenigo di San Stae (già residenza di famiglia dogale),  non offre facili doni ma condensa in una frammentata composizione di diversi mezzi e vari stimoli sensoriali una asciutta e dolente riflessione, certamente non trionfalistica, ma polemica e insieme propositiva, sui problemi e la situazione di terminale sofferenza della Città.

Morucchio due anni fa ha realizzato a mia cura Play God, una installazione riflessiva, ancora multisensoriale, per l’Oratorio di San Ludovico: quest’ultima, la piccola cappella di una dimenticata istituzione privata caritatevole dell’antico regime veneziano. A quel tempo, avevo discusso con lui a lungo della sentita necessità che, in un momento di paralisi della vita culturale e politica (vorrei dire civile) di Venezia, gli artisti potessero intervenire con richiami simbolici e metaforici sì, come è loro proprio, ma anche urlati ben chiari, sulla grave situazione della città. Play God è stato l’inizio di questa riflessione fra noi, e tra l’artista e il suo pubblico, una testimonianza in cui tutto di sé Morucchio ha messo in gioco (il suo stesso corpo nudo!) esitando in una realizzazione che in quel momento è stata ancora soprattutto lirica. 




Da quel tempo, la sempre crescente preoccupazione diffusa negli strati più vivi e sensibili della popolazione per lo stato delle cose in città: diciamo degli scandali (ancora forse in gran parte da scoprire) legati alla gestione del Mose, di quelli a questa faccenda legati del Consorzio Venezia Nuova (ancora forse in gran parte da scoprire), di quelli di mal gestione e corruzione legati al sindaco Orsoni (ancora forse in gran parte da scoprire), per non parlare di tutta una serie di improprietà e abusi nella gestione e nella politica di molte istituzioni culturali della città (certamente ancora in gran parte da scoprire) che ai copiosi finanziamenti provenienti dagli enti sopraddetti si sono largamente abbeverate. C’è tutta una classe dirigenziale che è ancora insediata, anche se su vacillanti scranni. Quasi una nuova oligarchia, nella città che in antico aveva perfezionato uno dei sistemi oligarchici di governo più efficienti e longevi. C’è tutta una parte di non scoperto che noi possiamo solo sospettare: la cura non è ancor iniziata, figuriamoci quindi la guarigione. 




Nel cinquantennio (questa sarà, presto, una data da celebrare con tristezza!) seguito alla alluvione del 1966, mentre si accelerava l’esodo della popolazione residente in città verso una terraferma più abitabile e dotata di servizi, per non dire di lavoro, questa città è stata inondata di denaro. Successive Leggi Speciali per Venezia, i Comitati Privati di salvaguardia, una serie quasi infinita di contributi da Europa, Stato e Regione hanno portato grandi finanziamenti in città. Restringendoci al solo campo della cultura, le grandi istituzioni culturali sono state inizialmente individuate come destinatarie della maggior parte dei fondi – allora indubbiamente per loro vitali  – ma in seguito si è creato un sistema nascosto, un non dichiarato “ordine di beccata” per la difesa di questi canali privilegiati di finanziamento, atto a impedire la crescita di quanto ogni città vera sa produrre di nuovo e di spontaneo nel campo della cultura. Qui, no: nulla doveva sfidare l’esistente. Favorire o anche permettere nuova crescita avrebbe prima o poi messo in discussione l’ordine di beccata. Così, al congenito conservatorismo della città che della conservazione ossessiva della propria faccia sembra abbia fatto l’unico tema di discussione culturale (si solo pensi alla passiva e spenta parola d’ordine  “come era – dove era” lanciata dal sindaco/filosofo per la ricostruzione della Fenice dopo l’incendio di quasi venti anni fa) è stato congeniale confermare il predominio di istituzioni già esistenti senza peraltro mai metterne in discussione efficienza e produttività.




Tutto questo ha però suscitato la crescita di un informale e non organizzato fronte di resistenza nella popolazione – che è forse più sedata da un realistico disincanto e sentimento di impotenza che da un qualunquistico disimpegno. Questa resistenza si manifesta in iniziative sincere e motivate, talora ingenue, ma realmente partecipate dai cittadini, come il movimento associativo per gestire a uso pubblico l’isola di Poveglia; le proteste contro il passaggio delle Grandi Navi all’interno della città; contro la crescente diffusione di criminalità mafiosa legata alle soverchianti attività turistiche; e infine (cosa che ci sta particolarmente a cuore) contro il lavoro sottopagato o addirittura gratuito dei precari nelle grandi istituzioni culturali della città.

Ecco, è in questo scenario contemporaneo, di disaffezione delusa ma anche di compresenti freschi impulsi di resistenza, che Morucchio approda a Ca’ Mocenigo. Questa mostra è, naturalmente, una mostra: ma è anche una protesta. 

Finalmente una protesta! 

Di solito, si associa l’idea di protesta a quella di amore: protesta contro un qualcuno o qualcosa che minaccia o danneggia la cosa o persona amata. Naturalmente, in un artista veneziano che esegue un gesto di protesta che riguarda questa città, c’è amore: ma anche una esplosiva collera per lo stato delle cose. 

Ma, nella energia data dalla rabbia, si trova anche una strana felicità. Il vedere che le cose peggio di così non possono comunque andare, mentre ci appesantisce nella amara soddisfazione del “io l’avevo detto”, ci dà anche una strana fiducia nella possibilità di agire. 

Perché abbiamo toccato il fondo. 

Perché abbiamo delle idee. 

Perché la rabbia porta comunque a desiderare, immaginare e costruire un nuovo stato delle cose. 

E tutto questo costituisce un noi condivisibile, permette un possibile contesto.

Diciamo qui oggi che no, che non va bene, che non CI va bene. Prendiamo a schiaffi Venezia-La-Bella-Addormentata, ovvero chi le somministra psicofarmaci per tenerla in tale stato, macchina bene oliata da cui mungere finanziamenti ricattando il Mondo sui problemi – pur reali – di conservazione e salvaguardia. Una macchina che dell’ideologia della conservazione (che con l’eroico termine di “salvaguardia” troppo spesso è camuffata) ha fatto perfetto meccanismo atto a impedire ogni nuova crescita, ogni nuova entità cuturale e artistica che possa sfidare lo status quo.

Io – e, penso, Morucchio, anche se non glielo ho chiesto – crediamo nel valore che la cosa chiamata “mostra” di per sé ha, come affermazione autonoma di scelta di valori e di priorità espressive ed estetiche, ma anche politiche. Nel presentare diversi materiali visivi dotati di significati confluenti ma autonomi, l’installazione The Rape of Venice di Andrea Morucchio diventa una occasione aggregativa di significati diversi. Da questa aggregazione di materali non omogenei risulta, insieme, energia e ambiguità. Si evidenziano valori, punti di criticità, problematiche: e si danno loro momento e direzione.

I fatti in sé (le cose che accadono) giacerebbero infatti flaccidi e inerti nella quotidianeità, se non interpretati. E’ quello che noi pensiamo di loro, che ne crea il significato. In fondo, il Mondo esiste perché noi lo pensiamo. Ma un pensiero tollerante e amorfo, non dando senso al Mondo, è come se ne negasse, o rendesse inutile l’esistenza stessa. E’ l’osservare criticamente i fatti, il metterli sotto riflettori di pensiero critico nel loro preciso contesto, che dà loro valore e crea occasioni di cambiamento positivo. Il contesto è anche un luogo che può essere condiviso; un punto di partenza.

Ed è per questo, che un artista come Morucchio ci serve. Morucchio per The Rape of Venice orchestra i diversi elementi della sua installazione con attenzione e rispetto al valore espressivo di ognuno di essi, valorizzandone le diverse potenzialità e insieme permettendo, con sensibilità, una armonia dell’insieme, come farebbe un direttore d’orchestra con i diversi strumenti.

Ad anni luce di distanza dal Poeta Laureato, o dal suo simmetrico antagonista e in fondo vecchio compagno, l’Artista Impegnato, quale è la posizione di una artista nella società oggi? Morucchio non sembra preoccuparsene, mentre si muove disinvoltamente – con la sua caratteristica camminata atletica e veloce di ragazzo alto e un po’ impaziente – nei corridoi della Istituzione Culturale che ospita Rape; la pazienza quasi Zen e la perseverante attenzione posta dall’artista al suo progetto ha alla fine prevalso. 

Il lavoro The Rape of Venice è una orchestrazione – da lontano pensata, calibrata nei suoi elementi – di diversi media espressivi. Grandi scritte, l’elemento più vistoso del lavoro, citazioni dalla stampa internazionale sullo stato di Venezia, scorrono incessantemente proiettate sui muri dello spazio, come se fossero “urlate” dagli antichi strilloni dei quotidiani e con una velocità tale da creare un leggero disagio. Un suono appena sull’orlo del fastidioso pervade l’ambiente: è la registrazione, modificata, del rumore subacqueo delle eliche dei motori marini, parte importante questi ultimi dei problemi della città. Ancora, si cammina su un pavimento che ricorda il mosaico pavimentale di San Marco: infatti ne è la ricomposizione, modificata, da innumerevoli scatti fotografici dei vari motivi e dettagli. Un mosaico di mosaico. Infine nello spazio si diffonde un aroma composto specialmente per l’occasione dal team creativo di Mavive, evocativo dell’olezzo di alghe gelate che causava una speciale felicità a Brodskij, salutandolo al suo arrivare d’inverno alla stazione ferroviaria di Venezia. Tanti elementi che hanno richiesto condivisione del progetto non solo con noi due curatori (quasi suoi testimoni più che curatori) ma anche con i tecnici e i responsabili di diverse realtà produttive, come anche l’illustre casa grafica Fallani col cui supporto tecnico è stato materialmente realizzato il pavimento. Il reggere le difficoltà di realizzazione e i vari labirinti organizzativi non sono state infatti le parti meno importanti dello sforzo dell’artista; mentre l’altro aspetto impegnativo è stato quello di conferire unità e coerenza a questo lavoro. 

Ripartiamo da quest’ultimo aspetto, quello della coerenza, la cui esistenza o meno è un antico criterio di giudizio della critica d’arte. Ora, riconoscendo che se viviamo in un mondo frammentato, non si capisce come un lavoro artistico debba necessariamente essere coerente. Eppure il lavoro si presenta unitario, sia nella orchestrazione dei diversi elementi, sia nel suo essere contenuto nello spazio espositivo del palazzo dei Mocenigo di San Stae. 

E torniamo ora alla indagine sulla unità di un lavoro che affronta, col coraggio di chi si tuffa nell’acqua fredda, media così diversi. Composizione di diversi elementi, Rape diventa viva nei gradi diversi di affinità e condivisione che i visitatori proveranno in modo vario.  Perché si fa presto a dire sinestesìa: questa è poi il visitatore che deve provarla. 

Benché composita, Rape mantiene una sua unità espressiva. Già la inusuale proposta dell’artista di avere due curatori (persone non abituate a lavorare insieme, che anzi nemmeno si conoscevano) indica il suo desiderio di creare un contesto di discussione e dialogo già all’interno del momento creativo. Molto infatti abbiamo discusso, nei mesi precedenti la realizzazione del lavoro. E – come appropriato! – contesto vuol anche dire testo condiviso, o costruito insieme. Il progetto di Morucchio non è calato nello spazio come in un contenitore neutro, ma si realizza con cura sartoriale nel e per il luogo scelto.

Per mia formazione, mi è più facile considerare l’elemento visivo, che mi è congeniale: e quindi voglio ora discutere più in particolare, fra i vari elementi della installazione, del pavimento. Morucchio ha selezionato centinaia di fotografie del pavimento musivo di San Marco, ricomponendole in maniera diversa dall’originale. Quel mosaico che maestoso copre il suolo della basilica, e Proust paragona all’aspetto di un mare, le cui onde il tempo ha congelato. Dove nel pavimento antico una ricca massa di motivi allegorici, geometrici, cornici,  figure di animali eccetera – assortimento tutto sommato disparato – era reso omogeneo da una medievale allegria, nel “pavimento nuovo” diventa una ricomposizione fredda di motivi spezzati, che trova però un equilibrio di colori, di pieni e vuoti, di bianco e nero, di frammenti ancora riconoscibili che bilancia l’ansia causata in chi guarda dal disequilibrio della frammentazione dell’ornato originale. Come a dirci: se anche ciò che era uno, è ora rotto e non può tornare come prima, nuovi sistemi mentali e visivi possono ricreare una diversa unità e fruibilità visiva.  E una nuova contemporanea serenità.

La costruzione e decostruzione che l’artista opera in questo lavoro sul pavimento marciano, andando incessantemente avanti e indietro per la scelta delle sue “tessere” come su un bizzarro telaio su cui diverse stoffe contemporaneamente si tessano, ha importante significato per il sentimento di fiducia che il processo di costruzione porta con sé. Mentre la decostruzione, che non è distruzione, serve a esaminare meglio gli elementi a disposizione, a non farsi ingannare dal loro valore formale, a non fermarsi alla loro bellezza. La decostruzione come analisi razionale; la costruzione come emozione. La metafora proustiana del pavimento come mare congelato porta referenze alla complessità di contenuti nascosti sotto la superficie, alla energia di masse scorrenti, alla vitalità stessa del mare.

I frammenti (del pavimento marciano) come elemento di questo lavoro portano con sé un altro interessante vantaggio: offrono molteplicità.

Anche in antico l’arte ha indagato la molteplicità: opere come i bronzi di Riace, o i Corridori dalla Villa dei Papiri di Ercolano ci confondono per la leggera differenza di postura che li rende quasi identici mentre l’occhio si affanna a passare dall’uno all’altro per paragonarli e vede che identici non sono. Questa singolare prassi suggerisce il movimento delle figure, colte a pochi attimi di distanza l’una dall’altra, quasi in due successivi “frames” di una pellicola cinematografica. Esse offrono una Unità nella Molteplicità, in una maniera profondamente diversa da quella, appunto, con cui una unità viene raggiunta dal susseguirsi veloce di migliaia di immagini differenti nel mezzo cinematografico: nella molteplicità antica, è data allo “spettatore” una individuale contemplazione dei diversi istanti, l’occhio li riconosce e la mente ne ricompone il senso e l’unità. Così la frammentazione ricomposta di Morucchio, creando una (nuova) unità dalla molteplicità creata, raggiunge un effetto convincente e sereno.

È, l’arte di Morucchio, naturalistica, cioè imitazione della natura secondo l’antico detto? Direi di no. Questo e altri suoi lavori (non interessa ora dire se tutti) ha con la natura il rapporto mediato che la letteratura ha: è una teatrale rappresentazione di idee, che a loro volta emergono dal modo umano di reagire ai dati del mondo naturale.

Ma è in questo il suo essere legata alla performance: se nel teatrino messo in scena a Ca’ Mocenigo il corpo vivo dell’artista non c’è, rimane sensibile la sua presenza energizzante e significante.

È infine questa, un’arte pericolosa? Spero di sì, perchè mette in discussione dati di politica, cronaca, gestione culturale di Venezia che sono tra loro collegati e a loro volta condizionano la esperienza stessa della vita e della produzione d’arte in questa città. 

E punta a dito i responsabili