“Rendere Abitabile l’Inabitabile, ossia l’Immagine”, testo critico di Alberto Zanchetta, 2013, ita

Siamo ancora in grado di vedere, di vivere il paesaggio? Per osservare una cosa dobbiamo fermarci e dedicargli tempo, attenzione, ma soprattutto curiosità. Il problema è che abbiamo smesso di essere dei viaggiatori e ci siamo trasformati in passeggeri. 

Assuefatti ai mezzi di trasporto pubblici e privati, non riusciamo più a fruire i luoghi perché non vi stazioniamo veramente, siamo cioè succubi di una velocità di fruizione e comprensione che ci rende vittime del consequenziale… un luogo dopo l’altro; in pratica scorriamo (anziché scorgere) il paesaggio intorno a noi, come fosse un’immagine in uno slide-show.

Guardiamo il paesaggio in lontananza, di sfuggita, lo attraversiamo con noncuranza e finiamo quindi per interpretarlo, perché la nostra percezione è di tipo transduttivo: traduce-trapassa la realtà. La pianificazione del passeggero, che non si organizza in modo autonomo ma viene agevolato nei suoi spostamenti dalle agenzie di viaggio e dalle compagnie dei trasporti, si scontra con l’ambage del viaggiatore, che vive [al]l’avventura, improvvisa itinerari, facendo tesoro degli imprevisti, delle difficoltà che costeggiano e formano tale esperienza.

Gli artisti di questa mostra non transitano né esitano, sanno di dover arrestare il loro incedere per comprendere fino in fondo il mondo che li circonda, perché l’epifania rivendica la necessità di doversi situare: l’immagine non “è il luogo” ma “ha luogo”. Le loro fotografie sono vedute urbane, scorci di una realtà metropolitana, a volte inedita, a volte incredibile. Galeotti, Marinelli, Morucchio, Nonino e Savi ci rivelano un percorso cadenzato da suggestioni che ci dicono molto, non solo della specificità tecnica del mezzo ma anche di uno sguardo che è sovrastruttura rispetto all’elemento architettonico dato.

Quartieri, abitazioni, cantieri o poli industriali sono i soggetti scelti da Samuele Galeotti, il quale si tiene a distanza, come se il suo sguardo volesse essere di “facciata” (edile). Ne risultano panorami silenti e solitari in cui la dimensione dell’uomo scompare o comunque viene occultata. Esiste in ognuna di queste fotografie un carattere perturbante che delimita uno spazio in cui si apre una fovea, ossia una zona che viene distinta con più chiarezza. Nei falansteri che infestano le città e le periferie, Galeotti capta le emanazioni luminose, bagliori in cui crepita la vita, elettrificazioni che sembrano dei moderni afflati prometeici. 

Il binomio geometria-architettura è un rovello molto vasto che Giovanni Marinelli affida all’analogico. I suoi scatti – stampati in copia unica, direttamente da negativo – implicano una contemplazione statica, sorta di insidioso “errare” che si arresta in attesa di essere “risolto”. Tale dis-orientamento si sottopone all’ambiguità del sottoinsù, allo slancio verso l’alto che innalza fino all’eccesso lo skyline, secondo una fuga ascensionale che altera il senso della misura e della realtà. Su di un cielo nero-pece o bianco-ghiaccio, la presenza totemica di questi edifici monumentali-monolitici sembra suggerire all’artista la visione di un eremo inespugnabile. 

Rispetto alla forma d’elevazione (quella della verticalità architettonica), Andrea Morucchio predilige invece la forma d’elezione dell’orizzontalità (tipica dello slargo paesaggistico) sottoposta ai giochi d’ombra che la attraversano in diagonale. Scorporando il campo visivo dal contesto, e dall’agglomerato urbano, l’artista sorvola sul degrado dei fabbricati per concentrarsi sull’esprit de géometrie, raggiungendo quel puro figurare – per estrazione e isolamento – che tende alla metodologia del particolare. Attraverso la sagacia del colpo d’occhio, Morucchio pare disciplinare l’immagine fotomeccanica secondo una ri-progettazione e ri-significazione del territorio. 

Gli scatti di Enrico Savi non documentano l’attimo fuggente, al contrario: lo creano, lo inventano, lo avverano. Attraverso un’esposizione multipla, i fotogrammi vengono sovrimpressi in presa diretta, grazie a una macchina Holga, strumento ottico passibile di imperfezioni. 

Le immagini così ottenute ci rivelano delle collisioni quantitative in cui gli edifici sembrano implodere, minati nelle loro fondamenta, esattamente come la casa Usher di Poe. Qui tutto è un fremito, un sommovimento, rapido e dinamico, come quello della retina, che non si fissa su un punto ma continua a vagare, alla maniera di un flâneur.

Francesco Nonino compendia centinaia di foto diurne e notturne in un video (il cui titolo rimanda all’habitat di comuni cittadini, ignari d’essere sorvegliati da un occhio meccanico) che altera la scansione temporale allo scopo di ottenere un paradigma culturale. Ricorrendo alla cronografia, che scatta fotogrammi a intervalli regolari durante tutto l’arco della giornata, l’artista ha contratto le ventiquattrore in un loop di pochi minuti. Ma se lo scorrere del video induce a un “falso movimento”, alcuni dettagli fotografici arrestano il flusso frenetico e indistinto, materializzando quelle persone che nel costante monitoraggio di Nonino appaiono impercettibili ai nostri occhi. 

Come si è visto poc’anzi, la fotografia è qualcosa di più del semplice “riprodurre”, vuole infatti dare forma a uno sguardo, sempre nuovo, sempre diverso. 

Ogni immagine è un’esternazione del modo di essere e di vedere del suo autore, un tentativo di rendere abitare l’inabitabile, marcando la linea tra un’estetica e un’etica del mezzo fotomeccanico.